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Borse, dietro il panico ci sono le idee confuse di Pechino

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Domenica, 30 Agosto, 2015
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Il Fatto Quotidiano

Erasmus: Giovani imprenditori cercasi

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Al via le selezione per l’Entrepreneurship Incubator 2015
31 Agosto 2015

Hai un progetto imprenditoriale nel cassetto o guidi una piccola organizzazione che non è ancora riuscita a sviluppare tutto il suo potenziale? Il “Realize IT Entrepreneurship Incubator 2015” può essere l’occasione che stavi aspettando.

Realize IT Entrepreneurship è un evento internazionale dedicato ai giovani imprenditori europei che intendono sviluppare un nuovo business, una start-up o un progetto innovativo. Il progetto è organizzato dall’associazione studenti e alunni Erasmus (Esaa) che raggruppa tutti gli studenti, passati e presenti, che hanno partecipato a uno dei programmi di scambio internazionale finanziati dall'Ue.

Per presentare i propri progetti è necessario inviare entro il 6 settembre una lettera di motivazione, i dati personali tra i quali l'affiliazione a una delle associazioni del network Esaa, una descrizione dettagliata del progetto, dello staff e degli strumenti e mezzi richiesti per la sua realizzazione.

Entro il 15 settembre una giuria selezionerà i progetti più interessanti che saranno presentati durante le giornate dell’Incubator 2015 che si terrà a Berlino il 23 e 24 ottobre davanti a un pubblico di alumni Erasmus che potranno fornire indicazioni, contatti, e - perché no - finanziamenti ai giovani imprenditori.

Per informazioni più dettagliate riguardo alle modalità di partecipazione visita il sito ufficiale www.em-a.eu.


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Cina: incognite di una trasformazione strutturale

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Lunedì, 31 Agosto, 2015
31 AGOSTO 2015
Cina: incognite di una
trasformazione strutturale
Lo spettro agitato da molti commentatori negli anni passati di un rallentamento dell‘economia cinese si è manifestato nell‘estate 2015, sollevando numerosi interrogativi sia sulla tenuta della stessa struttura economica, sia sul sistema politico e sulle aspirazioni globali di Pechino. I timori derivano, infatti, dalla consapevolezza che il crollo delle borse cinesi sia il sintomo di problemi strutturali che il paese deve risolvere per garantire lo sviluppo economico. Il presidente Xi Jinping ha avviato dal 2013 un piano di trasformazione dell‘economia ma ora si trova a dover affrontare crescenti resistenze all‘interno del partito da parte di coloro che temono di perdere rendite politiche ed economiche. Se la Cina saprà risolvere questa crisi estiva il partito comunista avrà dato prova di essere in grado di perpetuare il suo China Model caratterizzato da stabilità politica e crescita economica. Anche sul piano internazionale, l‘integrazione economica e commerciale di Pechino con il resto del mondo proietta su scala globale gli effetti del rallentamento della crescita cinese. Che sia giunto il momento di riformare il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, coinvolgendo anche la Cina? (Foto: WikiMedia Commons)
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Cina: incognite di una trasformazione strutturale

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ISPI Dossier
31 Agosto 2015
(Foto: WikiMedia Commons)

Lo spettro agitato da molti commentatori negli anni passati di un rallentamento dell‘economia cinese si è manifestato nell‘estate 2015, sollevando numerosi interrogativi sia sulla tenuta della stessa struttura economica, sia sul sistema politico e sulle aspirazioni globali di Pechino. I timori derivano, infatti, dalla consapevolezza che il crollo delle borse cinesi sia il sintomo di problemi strutturali che il paese deve risolvere per garantire lo sviluppo economico. Il presidente Xi Jinping ha avviato dal 2013 un piano di trasformazione dell‘economia ma ora si trova a dover affrontare crescenti resistenze all‘interno del partito da parte di coloro che temono di perdere rendite politiche ed economiche. Se la Cina saprà risolvere questa crisi estiva il partito comunista avrà dato prova di essere in grado di perpetuare il suo China Model caratterizzato da stabilità politica e crescita economica. Anche sul piano internazionale, l‘integrazione economica e commerciale di Pechino con il resto del mondo proietta su scala globale gli effetti del rallentamento della crescita cinese. Che sia giunto il momento di riformare il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, coinvolgendo anche la Cina? 

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Merkel apre ai migranti? Il suo è opportunismo

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Lunedì, 31 Agosto, 2015

Armando Sanguini

Le cronache di queste ultime settimane ci raccontano di una gigantesca spirale di migliaia e migliaia di persone che cercano di raggiungere le frontiere estere dell’Unione Europea. Sono molti più di prima - molto più di sempre, verrebbe da dire - nella recente storia dell’immigrazione europea.

Ma più di prima e di sempre non si tratta tanto di persone che fuggono dalle loro terre per fame, per una miseria ritenuta insopportabile dalle condizioni di benessere che sanno esistere altrove e di cui sperano di poter fruire anche loro, un giorno; di quelle cioè che con una disumanizzante locuzione definiamo i “migranti economici”.

No, si tratta anche, direi soprattutto, di persone che fuggono dal rischio di perdere tutto, dalla loro libertà alla casa, al loro lavoro, alla loro stessa vita a causa della guerra che sta devastando il loro paese ovvero dell’intollerabile ricatto esercitato da un regime dispotico. Da cause cioè che le progressive conquiste del diritto internazionale rigettano al punto da riservare loro - “rifugiati/profughi” - speciali tutele.

Ebbene, in quella fiumana di persone provenienti da numerosi paesi che vivono vite di grande sofferenza, dal Medio Oriente all’Africa del Nord e sud-sahariana tendono a ricevere un’attenzione particolare i siriani, alla ribalta dell’attualità di questi giorni per l’efferato strazio usato nei riguardi dell’archeologo Khaled al Asaad e dell’ennesima violenza distruttiva sulla straordinaria eredità culturale di Palmira nel contesto di un orrendo primato: appartenere a un paese nel quale si sta realizzando la più grande crisi umanitaria del pianeta dal secondo dopo guerra; nel quale si sono contate in meno di quattro anni circa 250mila morti; nel quale quasi metà dei suoi 22 milioni di abitanti è sfollata; nel quale gran parte dell’economia e del suo patrimonio di infrastrutture sono stati devastati con effetti deleteri sull’occupazione. Insomma, un paese sul quale sembrano essersi scaricate le più nefaste conseguenze di quella che sembrava preludere, nel 2011, ad una feconda primavera, resa credibile dall’aura riformistica che il giovane presidente e la sua consorte erano riusciti ad accreditare presso le Cancellerie del mondo intero. I disarmati conati di libertà di quel popolo sono subito apparsi destinati ad essere silenziati nel sangue e a diventare col tempo una piaga conflittuale in continua, tragica progressione. Un paese divenuto, per generale insipienza, cinismo e paura, un formidabile magnete per nuclei estremisti della più diversa specie impegnati in una micidiale gara che era ed è anti-Assad ma anche fratricida; dove al-Qaida e il Califfato, una sua ben più temibile costola, sembrano al momento sovrastare le forze ribelli “moderate” e internazionalmente riconosciute. E dove le contrapposte e contradditorie agende delle grandi potenze e il loro incrocio con quelle delle potenze regionali hanno consentito la sopravvivenza di un regime criminale su un territorio divenuto un grande campo di battaglia difficilmente riconducibile alla Siria delle carte geografiche di solo qualche anno fa.

Da lì sgorga, come si dovrebbe ormai sapere, la sIavina siriana che tende ad essere o ad apparire protagonista della valanga migratoria che sta affluendo sulle coste europee, creando un clima da “invasione” che la pochezza del vertice europeo sommata alle populistiche risposte nazionali rischiano di legittimare. Pensiamo al tandem Parigi-Londra e alla barriera ungherese, tanto per fare due esempi che la dicono lunga sull’assenza di una politica degna di questo nome, ben al di là del tema di un’accoglienza che fa acqua da tutte le parti; ben al di là della retorica dichiarazione del presidente Junker che ha atteso di terminare le vacanze per dichiarare che “questa non è l’Europa che voglio” – concetto da condividere - senza però riuscire a balbettare un’ipotesi di “gestione del fenomeno e delle sue cause” da proporre ai partner: gestione dell’oggi, certo, ma anche del domani e del dopo-domani e dunque del futuro di quest’umanità e del propellente – la guerra - della sua fuga di massa.

Su questo sfondo assai poco incoraggiante, l’apertura incondizionata della cancelliera Merkel ai profughi siriani all’indomani di un bilaterale con Hollande all’insegna del monito (a Grecia e Italia) a un rigoroso processo di registrazione e identificazione dei supposti richiedenti asilo, lascia confusi. Si tratta infatti di un gesto umanitario di indubbia valenza, ma anche carico di un umanitarismo discriminante e contradditorio rispetto alle stesse regole di cui la Germania si fa da sempre tutrice e arbitro.

Perché i siriani e non gli eritrei o gli iracheni? Non mi risulta che la Costituzione tedesca distingua i richiedenti asilo per nazionalità. Sarebbe inaccettabile che lo facesse.

E poi, perché assumere una tale determinazione politica“a prescindere”, direbbe Totò, dall’Unione europea?

Penso che la cancelliera si sia decisa a un tal passo per ragioni squisitamente politiche. Per dare un segnale di netto contrasto alle crescenti forze populiste (e neo-naziste) del suo stesso paese, ma anche di attenzione alla Siria  in una fase in cui  la real politik di quelle stesse potenze che hanno contribuito a far/lasciar marcire la situazione sta spingendo verso uno sbocco che eviti ciò che non appare più tanto remoto: il rischio cioè dell’implosione del regime di Bashar al Assad e della perdita del controllo che ancora esercita sul territorio della cosiddetta “Siria utile” che ancora esercita a favore della più aggressiva, armata e militarmente capace delle milizie islamiche che vi si confrontano. E il pensiero corre all’Isis, naturalmente.

In queste ultime settimane si sta infatti assistendo a un particolare attivismo politico-diplomatico, a livello bilaterale come sul piano multilaterale.

Tra Washington e Mosca e Ankara, tra Mosca e Arabia Saudita, tra Iran e Damasco e Baghdad, in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, è un fermentare di contatti e di segnali assai più intensi e frequenti di prima, all’insegna di una parola d’ordine: è tempo di una soluzione politica e dunque di tracciare un percorso transitorio che sbrogli il gomitolo dei conflitti in atto e traguardi, per quanto possibile, il ripristino politico-istituzionale della Siria.

In quel contesto diverse sono state le proposte avanzate, da ultimo quella di Teheran verosimilmente nel contesto della ricerca di acquisire credibillità negli USA (Congresso-accordo nucleare) e nel mondo. Si tratta di contatti in cui nessuna delle parti in gioco ha scoperto del tutto le proprie carte, né gli sponsor di Bashar (Mosca e Teheran) ne chi lo vuole fuori da qualsivoglia transizione (Araba Saudita e Turchia) in particolare. Ma al di là del loro esito questi contatti sono sintomatici del fatto che la partita politico-diplomatica sulla Siria è ripartita.

E Berlino non vuole starne al di fuori. L’apertura agli esuli siriani può costituire un discreto biglietto da visita per parteciparvi, capitalizzando il suo ruolo di co-protagonista del negoziato sul nucleare iraniano. E può costituire un assist di prima grandezza per l’Alto rappresentante Mogherini.

Armando Sanguini, ISPI Scientific Advisor, già Ambasciatore d’Italia in Tunisia e Arabia Saudita.

* L'articolo è stato pubblicato su Lettera43, http://www.lettera43.it/firme/merkel-apre-ai-migranti-il-suo-e-opportunismo_43675184447.htm

Ucraina. Violenti scontri davanti al Parlamento tra i nazionalisti e la polizia

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Martedì, 1 Settembre, 2015
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Rai Radio Uno

Geopolitica di un pozzo

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Data di pubblicazione: 
Martedì, 1 Settembre, 2015
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Il Foglio

Ucraina: cos’è cambiato dopo l'Accordo di Minsk?

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Sullo sfondo di un conflitto congelato, a rischio le riforme e la ripresa economica
01 Settembre 2015
(foto: Flickr)

Il voto dei deputati ucraini per rendere effettivo il decentramento amministrativo  a favore delle regioni a maggioranza russofila ha provocato ieri violenti scontri davanti al Parlamento di Kiev. La riforma, approvata in prima lettura da 265 deputati su 450, è una delle richieste contenute nell’Accordo di Minsk sottoscritto a febbraio e fortemente voluta dagli alleati occidentali. Questa modifica costituzionale è però osteggiata dai militanti dei partiti nazionalisti di estrema destra che l’hanno bollata come una riforma pro-Putin. Proprio i sostenitori di queste formazioni, in particolare di Svoboda che alle passate elezioni ha ottenuto solo il 4,7% dei voti, hanno dapprima bloccato l'accesso alla tribuna parlamentare al grido di "Vergogna!". Il bilancio finale degli scontri tra manifestanti e polizia recita di tre morti e 122 feriti.

 

La situazione sul campo: fronte immobile?

Lo scontro in Ucraina si trova in una situazione di stallo da quando i ribelli hanno preso il controllo della città di Debaltseve, pochi giorni dopo la firma degli accordi di Minsk dello scorso febbraio. Nessuno dei due fronti è più riuscito a lanciare un’offensiva in grado di spostare la linea del fronte. L’esercito di Kiev sembra non avere i mezzi necessari per avviare una seria azione di riconquista dei territori persi mentre i ribelli, che continuano le loro azioni lungo il confine orientale, non possono spingersi oltre a causa della posizione delicata assunta dalla Russia in questa guerra. Mosca non può abbandonare il sostegno agli insorti del Donbass perché si è già coinvolta troppo con un ruolo non secondario, ma allo stesso tempo non può permettere un peggioramento della situazione in Ucraina senza assumersi enormi rischi internazionali.  Per il momento quindi la Russia sembra aver scelto di alimentare un “conflitto a bassa intensità” e gli attacchi dei ribelli solo volti più a mantenere alta l’allerta nelle zone di confine che a avanzare. Alla fine di luglio si è verificato un aumento delle violenze da parte dei ribelli soprattutto nella zona di Mariupol ma ciò non ha prodotto un cambio di scenario.

Nonostante la situazione sembri congelata, la retorica delle parti fa temere che possa riaccendersi in tempi molto brevi. I ribelli ribadiscono che il loro obiettivo è ottenere il controllo totale dell’Ucraina orientale e in particolare conquistare il porto di Mariupol, mentre il presidente Petro Poroschenko ha recentemente ribadito che la guerra potrà dirsi conclusa solo quando la Crimea tornerà all’Ucraina.

 

Economia: dove trovare i soldi?

A quasi due anni dallo scoppio dei disordini della Maidan, l’Ucraina si trova in una situazione economica di grande difficoltà. Per dare un po’ di ossigeno al paese, il 27 agosto i principali creditori dell’Ucraina hanno trovato un accordo per la ristrutturazione del debito con un taglio nominale del debito pari al 20 per cento, un leggero aumento dei tassi d’interesse e un allungamento di quattro anni delle scadenze dei bond. Per entrare in vigore, l’accordo dovrà essere approvato dal 75% di tutti i creditori presenti al summit che si svolgerà a metà settembre. La Russia, che è creditrice dell’Ucraina per circa 3 miliardi di dollari, ha fatto sapere che non parteciperà all’accordo.

Sono in molti a temere che Kiev non sarà in grado di ripagare i propri debiti con un’economia al collasso che secondo il Fondo Monetario Internazionale si contrarrà del 5,5% durante il 2015. Se la situazione è grave nelle regioni occidentali, è ancora più drammatica in quelle controllate dai ribelli. Molti giovani hanno abbandonato le proprie case e da mesi gli anziani non ricevono le pensioni che dovrebbero essere pagate da Kiev. Inoltre, le banche sono tutte chiuse e molte imprese hanno chiuso i battenti.

 

 

Accordo di Minsk: cosa è stato fatto a sei mesi dalla firma?

L’Accordo che avrebbe dovuto definire la road map per trovare una rapida soluzione alla crisi ucraina è stato firmato a Minsk il 12 febbraio scorso ed è ufficialmente entrato in vigore tre giorni dopo.  A firmarlo, oltre i leader di Ucraina, Russia, Francia e Germania anche i rappresentanti dei ribelli filo-russi delle regioni ucraine di Donetsk e Luhansk. L’intesa prevedeva la fine immediata dei combattimenti, il ritiro di tutte le truppe stranieri dal territorio ucraino, la liberazione dei prigionieri, il ritiro di armi pesanti e la promessa di una nuova Costituzione entro la fine del 2015 che garantisca maggiori autonomie alle regioni controllate dai separatisti. A più di sei mesi di distanza poco o nulla è stato fatto. Il cessate il fuoco, perennemente rinviato, dovrebbe entrare in vigore oggi, primo settembre, in concomitanza della riapertura delle scuole ma sono in molti a temere che anche questa volta la tregua possa non durare. Sul fronte delle riforme invece, il governo di Poroshenko sta cercando di portare a termine l’iter di una riforma costituzionale che, come si è visto nella giornata di ieri, rischia di innescare nuove violenze e di far vacillare il governo dopo che tre partiti della maggioranza si sono rifiutati di votarla. Per entrare in vigore l’emendamento dovrà essere votato nuovamente entro l’anno e in seconda lettura avrà bisogno di una maggioranza di 300 voti. 

 


SULLO STESSO TEMA 

 

Due to the Ukrainian crisis, relations between the EU and Russia hit rock bottom, the lowest point from the end of the Cold War. Indeed, it is crystal clear that today’s dispute is nothing but the latest chapter of a long story of misunderstandings and conflicting strategies on the post -Soviet states of Eastern Europe and South Caucasus. The further deepening of this cleavage would inflict serious damage on all interested parties: the EU, Russia and several post-Soviet states. Why is Ukraine so important both for EU and Russia? What are the real origins of the current crisis that brought to an open confrontation between Russia and the EU? What is the rationale behind Russia’s firm opposition to a further NATO enlargement? What are the viable options to escape the fate of a new ‘Cold War’? 


DOWNLOAD THE REPORT

 

 

 

 

 

La crisi dell’Ucraina – che, dopo l’annessione della Crimea alla Russia, continua nelle regioni orientali del paese – ha profondamente modificato la posizione di Mosca nello scenario internazionale. La Russia deve ora affrontare una crisi dei suoi rapporti con l’Occidente ancora più grave di quella seguita alla guerra con la Georgia dell’agosto 2008, che pure aveva indotto molti osservatori a parlare con eccessiva precipitazione di “nuova guerra fredda”. Questo volume affronta i temi centrali della odierna situazione russa, tanto nella sfera interna (politica, economia) quanto in quella esterna (la dimensione energetica, i rapporti con l’Europa, gli Stati Uniti, l’Asia Centrale e la Cina).

DOWNLOAD THE REPORT

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Ucraina
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Diretta streaming "Democrazia(e) in pericolo? Tunisia, la speranza sospesa..."

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A partire dalle 18.00 sarà possibile seguire l'evento in diretta
02 Settembre 2015

Saluti iniziali:

Piergaetano MARCHETTI, Presidente, Fondazione Corriere della Sera

Filippo DEL CORNO, Assessore alla Cultura, Comune di Milano


Fadhel JAÏBI, Direttore, Teatro Nazionale di Tunisia

 

dialoga con:

Lorenzo CREMONESI, Inviato, Corriere della Sera

Sergio ESCOBAR, Direttore, Piccolo Teatro di Milano

Stefano TORELLI, Research Fellow, ISPI e autore del libro La Tunisia contemporanea (ed. Il Mulino)

Armando SANGUINI, Scientific Advisor, ISPI; già Ambasciatore italiano in Tunisia e Arabia Saudita

 

L'evento è promosso in occasione dello spettacolo Violence(s). Delitti, grandi e piccoli, di Jalila Baccar e Fadhel Jaïbi, regia Fadhel Jaïbi, con gli attori della Scuola e del Teatro Nazionale di Tunisia, in scena al Piccolo Teatro Studio Melato il 4 e 5 settembre 2015.

 

L’evento, organizzato in collaborazione con il Comune di Milano e con il sostegno di ARCUS, si terrà presso la Sala Buzzati della Fondazione Corriere della Sera (via Balzan 3, angolo via San Marco 21).


Per adesioni e per avere maggiori informazioni clicca qui.



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Diretta streaming
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Diretta streaming "Democrazia(e) in pericolo? Tunisia, la speranza sospesa...", 2 settembre 2015

Terrorismo. Le mani dell'Isis sul paese. Analisi della situazione.

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Giovedì, 3 Settembre, 2015
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Rai Radio Uno

Nuclear disarmament and proliferation: what prospects after 2015?

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Martedì, 15 Settembre, 2015 - 16:00
Roma, Centro Studi Americani (Via Michelangelo Caetani, 32)

Expectations were high that this year’s NPT Review Conference and the commemoration of the 70th anniversary of the bombing of Hiroshima would offer two opportunities to make steps forward on the path towards nuclear disarmament and non proliferation. Both events were a disappointment. On the other hand the recent agreement on the Iranian nuclear program was a major unprecedented breakthrough. Where is the international community heading and what are the priorities at this stage? What role could the United Nations, the nuclear and the non-nuclear weapons states play? What are the implications for Europe and for the Middle East? 

 

Lecturer: 

Ambassador Sergio DUARTE

former United Nations High Representative for Disarmament Affairs and Chairman of the 2005 NPT Review Conference

 

 

Discussant: 

Ambassador Carlo TREZZA, 

outgoing Chairman of the Missile Technology Control Regime and former Chairman of the Advisory Board of the UN Secretary General for Disarmament Matters

 

The event will be introduced and moderated by Ambassador Giancarlo ARAGONA, 

President of the Italian Institute for International Political Studies (ISPI) 

 

 

The lecture will be held in English

 

ISPI International Lectures are open to Graduate Students, Post-Docs, professionals with comparable levels of experience and education, who come together in a highly-stimulating environment to discuss their current research and build informal networks with their peers. 

 

 

TO ENROLL please contact: 

Miss Giulia Passerini

phone: +39 02 86 33 13 385

e-mail: seminari@ispionline.it

indicating name, surname and affiliation (university/company and position held)

 

 

 

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Se la Cina riprende il suo posto

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Giovedì, 3 Settembre, 2015

Filippo Fasulo

La parata militare del 3 settembre che si è tenuta a Pechino in occasione dei 70 anni della “Guerra di resistenza del popolo cinese contro l’aggressione giapponese e della guerra mondiale contro il fascismo” (questo il nome ufficiale della celebrazione) non ha tradito le attese ed ha rivelato importanti elementi per la politica interna e estera cinese.

Xi Jinping è apparso sul palco della porta Tiananmen vestito con abiti tradizionali e le riprese televise cinesi lo hanno inquadrato mettendo in risalto il suo ruolo di unico leader nazionale. Ne emerge infatti uno scenario da “uomo solo al comando”, confermando l’impressione che Xi Jinping avesse accentrato su di sé la maggior parte dei poteri e superando dunque il paradigma della “leadership collettiva” – condivisione del potere fra i membri del Politburo – sperimentato in particolare durante il decennio di Hu Jintao (2002-2012).

La parata è capitata in un momento cruciale per la politica cinese e consente a Xi Jinping di dar prova del proprio potere all’interno del partito. L’estate 2015, infatti, è stata caratterizzata dalla crisi finanziaria cinese, dall’esplosione di un magazzino a Tianjin e dagli effetti della campagna anti-corruzione che ormai si trascina da quasi tre anni, tutti elementi che avevano indebolito l’autorevolezza di Xi. Gli ultimi bersagli della commissione disciplinare erano militari di altissimo grado vicini all’ex-leader Jiang Zemin, ritenuto un’eminenza grigia ostile alle politiche di riforma di Xi Jinping. Sorprendentemente Jiang Zemin e Xi Jinping hanno assistito alla parata uno a fianco all’altro e questo può essere interpretato come un segnale di distensione fra i due, ma soprattutto come un segno della capacità di Xi di tenere sotto controllo il partito.

La campagna anti-corruzione e le riforme economiche annunciate, infatti, avevano causato parecchi malumori fra i dirigenti cinesi perché  hanno intaccato rendite economiche consolidate. Anche il rapporto di Xi Jinping con l’esercito era stato messo sotto osservazione dopo che la campagna anti-corruzione si era estesa ai generali, ma Xi ha lanciato in apertura della parata una campagna di modernizzazione delle forze armate che prevede una riduzione di 300.000 effettivi in favore di una maggiore professionalizzazione. Xi Jinping, dunque, ha cominciato la giornata con un partito diviso e un esercito scosso dagli ultimi arresti e l’ha conclusa mostrando pieno controllo sulle forze armate e piena sintonia con il più potente politico cinese dopo di lui (Jiang Zemin, appunto).

Sebbene la parata militare sia stata un’ottima occasione per mostrare il pieno potere del Segretario generale all’interno del partito, in realtà gli obiettivi sono soprattutto di politica estera e fanno parte di una strategia portata avanti da Xi fin dalla nomina alla guida del Pcc. Come emerge dal discorso pronunciato da Xi e dalla copertura dei media cinesi, l’obiettivo delle celebrazioni è quello di dare un ruolo alla Cina negli avvenimenti della Seconda guerra mondiale. La Cina viene presentata come uno dei protagonisti del conflitto bellico e le statistiche vengono utilizzate per rafforzare questa tesi. Ai 27 milioni di morti dell’Unione Sovietica, vengono affiancati 35 milioni di vittime cinesi per mano delle forze di occupazione giapponesi. In questo quadro molti hanno sottolineato come il ruolo principale di resistenza al Giappone fosse stato svolto dal Guomindang, il Partito Nazionalista guidato da Chiang Kai-shek poi sconfitto dai comunisti nel 1949. Tuttavia, il tema della ricorrenza è che la Cina era un attore principale dello scenario internazionale anche nella prima metà del secolo, di conseguenza l’attuale accresciuta assertività non va letta come un’azione di revisione dell’ordine globale, bensì come una politica in continuità con la “posizione naturale” cinese sulla scena mondiale. 

Qui si ritorna al “sogno cinese” e al “ringiovanimento nazionale”. Il riferimento è al cosiddetto “secolo dell’umiliazione” (1840-1949) durante il quale la Cina perde centralità internazionale e sovranità a causa dell’influenza delle nazioni straniere. Una Cina grande potenza nel Ventunesimo secolo non sarebbe dunque una novità e quindi una minaccia all’ordine globale, ma semplicemente una nazione che riacquista il posto che le spetta e che, per di più, ha combattuto dalla parte “giusta” nel conflitto che ha disegnato l’ordine globale dei decenni successivi. Considerazioni del genere potrebbero essere fatte valore nell’ambito del dibattito sulla riforma degli organismi internazionali e, più in generale, nelle discussioni sui nuovi assetti globali alla luce di attori emergenti.

La parata del 3 settembre, dunque, ha consentito a Xi Jinping di inviare messaggi all’interno e all’esterno. Si è dimostrato capace di risolvere le dispute domestiche rilanciando il piano di riforme e ha segnalato al mondo la potenza militare cinese inserendola in una narrazione coerente con i proclami di crescita pacifica. Agli annunci dovranno però seguire i fatti, altrimenti si correrà il rischio di incappare nuovamente in incidenti di percorso come la crisi finanziari di questi ultimi mesi. Ancora più difficile sarà convincere il mondo della volontà pacifica della Cina, soprattutto dopo aver fatto sfilare nuove armi dal grande potenziale strategico. Due attori regionali importanti come Giappone e Filippine hanno preferito non presentarsi alle celebrazioni, indicando come le tensioni territoriali nel Mar cinese orientale e meridionale siano destinate a protrarsi a lungo.  

 

Filippo Fasulo, ISPI Research Fellow

Aree di Ricerca: 

Parata militare: il messaggio di Xi alla Cina e al mondo

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03 Settembre 2015
(foto: Flickr)

Di Filippo Fasulo, ISPI Research Fellow

La parata militare del 3 settembre che si è tenuta a Pechino in occasione dei 70 anni della “Guerra di resistenza del popolo cinese contro l’aggressione giapponese e della guerra mondiale contro il fascismo” (questo il nome ufficiale della celebrazione) non ha tradito le attese ed ha rivelato importanti elementi per la politica interna e estera cinese.

Xi Jinping è apparso sul palco della porta Tiananmen vestito con abiti tradizionali e le riprese televise cinesi lo hanno inquadrato mettendo in risalto il suo ruolo di unico leader nazionale. Ne emerge infatti uno scenario da “uomo solo al comando”, confermando l’impressione che Xi Jinping avesse accentrato su di sé la maggior parte dei poteri e superando dunque il paradigma della “leadership collettiva” – condivisione del potere fra i membri del Politburo – sperimentato in particolare durante il decennio di Hu Jintao (2002-2012).

La parata è capitata in un momento cruciale per la politica cinese e consente a Xi Jinping di dar prova del proprio potere all’interno del partito. L’estate 2015, infatti, è stata caratterizzata dalla crisi finanziaria cinese, dall’esplosione di un magazzino a Tianjin e dagli effetti della campagna anti-corruzione che ormai si trascina da quasi tre anni, tutti elementi che avevano indebolito l’autorevolezza di Xi. Gli ultimi bersagli della commissione disciplinare erano militari di altissimo grado vicini all’ex-leader Jiang Zemin, ritenuto un’eminenza grigia ostile alle politiche di riforma di Xi Jinping. Sorprendentemente Jiang Zemin e Xi Jinping hanno assistito alla parata uno a fianco all’altro e questo può essere interpretato come un segnale di distensione fra i due, ma soprattutto come un segno della capacità di Xi di tenere sotto controllo il partito.

La campagna anti-corruzione e le riforme economiche annunciate, infatti, avevano causato parecchi malumori fra i dirigenti cinesi perché hanno intaccato rendite economiche consolidate. Anche il rapporto di Xi Jinping con l’esercito era stato messo sotto osservazione dopo che la campagna anti-corruzione si era estesa ai generali, ma Xi ha lanciato in apertura della parata una campagna di modernizzazione delle forze armate che prevede una riduzione di 300.000 effettivi in favore di una maggiore professionalizzazione. Xi Jinping, dunque, ha cominciato la giornata con un partito diviso e un esercito scosso dagli ultimi arresti e l’ha conclusa mostrando pieno controllo sulle forze armate e piena sintonia con il più potente politico cinese dopo di lui (Jiang Zemin, appunto).

Sebbene la parata militare sia stata un’ottima occasione per mostrare il pieno potere del Segretario generale all’interno del partito, in realtà gli obiettivi sono soprattutto di politica estera e fanno parte di una strategia portata avanti da Xi fin dalla nomina alla guida del Pcc. Come emerge dal discorso pronunciato da Xi e dalla copertura dei media cinesi, l’obiettivo delle celebrazioni è quello di dare un ruolo alla Cina negli avvenimenti della Seconda guerra mondiale. La Cina viene presentata come uno dei protagonisti del conflitto bellico e le statistiche vengono utilizzate per rafforzare questa tesi. Ai 27 milioni di morti dell’Unione Sovietica, vengono affiancati 35 milioni di vittime cinesi per mano delle forze di occupazione giapponesi. In questo quadro molti hanno sottolineato come il ruolo principale di resistenza al Giappone fosse stato svolto dal Guomindang, il Partito Nazionalista guidato da Chiang Kai-shek poi sconfitto dai comunisti nel 1949. Tuttavia, il tema della ricorrenza è che la Cina era un attore principale dello scenario internazionale anche nella prima metà del secolo, di conseguenza l’attuale accresciuta assertività non va letta come un’azione di revisione dell’ordine globale, bensì come una politica in continuità con la “posizione naturale” cinese sulla scena mondiale. 

Qui si ritorna al “sogno cinese” e al “ringiovanimento nazionale”. Il riferimento è al cosiddetto “secolo dell’umiliazione” (1840-1949) durante il quale la Cina perde centralità internazionale e sovranità a causa dell’influenza delle nazioni straniere. Una Cina grande potenza nel Ventunesimo secolo non sarebbe dunque una novità e quindi una minaccia all’ordine globale, ma semplicemente una nazione che riacquista il posto che le spetta e che, per di più, ha combattuto dalla parte “giusta” nel conflitto che ha disegnato l’ordine globale dei decenni successivi. Considerazioni del genere potrebbero essere fatte valore nell’ambito del dibattito sulla riforma degli organismi internazionali e, più in generale, nelle discussioni sui nuovi assetti globali alla luce di attori emergenti.

La parata del 3 settembre, dunque, ha consentito a Xi Jinping di inviare messaggi all’interno e all’esterno. Si è dimostrato capace di risolvere le dispute domestiche rilanciando il piano di riforme e ha segnalato al mondo la potenza militare cinese inserendola in una narrazione coerente con i proclami di crescita pacifica. Agli annunci dovranno però seguire i fatti, altrimenti si correrà il rischio di incappare nuovamente in incidenti di percorso come la crisi finanziari di questi ultimi mesi. Ancora più difficile sarà convincere il mondo della volontà pacifica della Cina, soprattutto dopo aver fatto sfilare nuove armi dal grande potenziale strategico. Due attori regionali importanti come Giappone e Filippine hanno preferito non presentarsi alle celebrazioni, indicando come le tensioni territoriali nel Mar cinese orientale e meridionale siano destinate a protrarsi a lungo.  

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Cina
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Perché la Germania ha aperto le porte ai siriani?

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ISPI Focus
03 Settembre 2015
(foto: Flickr)

Negli ultimi giorni la Germania sembra voler porsi alla guida di un processo per la revisione delle politiche migratorie in Europa con un vigore che ha sorpreso molti. Nella giornata di ieri il ministro degli Esteri tedesco Frank–Walter Steinmeier ha annunciato un’iniziativa congiunta con Francia e Italia per introdurre un sistema più equo di ripartizione dei migranti che verrà presentata alla prossima riunione ministeriale di emergenza sull’immigrazione che si svolgerà il 14 settembre in Lussemburgo. L’annuncio segue la storica decisione della Germania di accogliere tutte le richieste di asilo dei migranti siriani che ne faranno richiesta sul suo territorio in deroga al Regolamento di Dublino. Un’iniziativa che sta sollevando diversi interrogativi, in primis il perché di tale scelta. Abbiamo chiesto a giornalisti, diplomatici ed esperti la loro opinione su una decisione che potrebbe cambiare le regole del gioco in Europa.

"La sfida è dimostrare che egemonia e responsabilità possono essere sinonimi"

Gian Enrico Rusconi, politologo e docente all’Università di Torino

Con la prevedibile crescita dell’opposizione interna ed esterna alla coraggiosa e inattesa decisione del cancelliere Merkel, vedremo – si domanda Gian Enrico Rusconi – se è stata meditata e programmata. Oppure risponde ad un suo tratto caratteriale di decidere all’improvviso sotto una forte impressione. Ma con l’orgoglio morale di aver fatto della Germania il paese più disponibile verso la tragedia della migrazione, il cancelliere sembra guadagnare il consenso della parte dell’opinione pubblica tedesca ed europea decisa a contrastare i populismi razzisti. Se è così, è la prova che "l’egemonia" tedesca sa essere sinonimo di "responsabilità". Questa è la sfida Merkel. Riuscirà?

 

"Per Berlino si tratta di un atto di leadership nuovo"

Danilo Taino, Corriere della Sera

Nel suo editoriale sul Corriere della Sera, Danilo Taino mette in evidenza il fattore di novità contenuto nella decisione tedesca. Secondo il giornalista, per la prima volta la Germania si mostra pronta ad accettare un ruolo di leadership per portare l’Europa in una direzione politica comune fondata sul diritto di asilo. Non si tratta più, come successo con la Grecia e l’Ucraina, di mantenere unita l’Unione su posizioni spesso giudicate troppo dure ma di innalzare l’asticella di un problema politico molto serio per ogni governo con il quale tutta l’Ue dovrà ora misurarsi.

 

"Quello della Merkel è soprattutto opportunismo"

Armando Sanguini, già ambasciatore in Tunisia e Scientific Advisor ISPI

Pur riconoscendo l’indubbia valenza umanitaria del gesto tedesco, secondo Armando Sanguini la decisione di Angela Merkel è stata dettata esclusivamente da ragioni politiche. Il cancelliere vuole dare un segnale di netto contrasto alle crescenti forze populiste e xenofobe del suo paese e al contempo mostrare una rinnovata attenzione alla tragedia siriana. In queste ultime settimane, infatti, si sta assistendo a un momento di particolare attivismo politico–diplomatico sulla Siria e Berlino non vuole starne fuori. L’apertura agli esuli siriani potrebbe essere un biglietto da visita formidabile per occupare un ruolo di primo piano nelle discussioni che si stanno avviando sia sul piano bilaterale che multilaterale.

 

"La Germania scommette su una leadership umanitaria"

Maria Serena Natale, Corriere delle Sera

Berlino si richiama alla clausola di sovranità e sospende il Regolamento di Dublino annunciando che non rimanderà indietro i profughi siriani. Il cancelliere Angela Merkel scommette su una leadership "umanitaria" per restituire alla Germania lo status di paese capace di trainare e indicare la rotta in un’Europa allo sbando. Superando i tabù del passato e la sindrome dell’egemone riluttante.

 

 

Occhiello: 
Migrazioni
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Int. Lecture: "Nuclear disarmament: what prospects after 2015?"

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04 Settembre 2015

Expectations were high that this year’s NPT Review Conference and the commemoration of the 70th anniversary of the bombing of Hiroshima would offer two opportunities to make steps forward on the path towards nuclear disarmament and non proliferation. Both events were a disappointment. On the other hand the recent agreement on the Iranian nuclear program was a major unprecedented breakthrough. Where is the international community heading and what are the priorities at this stage? What role could the United Nations, the nuclear and the non-nuclear weapons states play? What are the implications for Europe and for the Middle East? 

 

Lecturer: 

Ambassador Sergio DUARTE, former United Nations High Representative for Disarmament Affairs and Chairman of the 2005 NPT Review Conference

 

Discussant: 

Ambassador Carlo TREZZA, outgoing Chairman of the Missile Technology Control Regime and former Chairman of the Advisory Board of the UN Secretary General for Disarmament Matters

 

The event will be introduced and moderated by Ambassador Giancarlo ARAGONA, President of the Italian Institute for International Political Studies (ISPI) 

 

Venue:

The Lecture will be held at Centro Studi Americani (Via Michelangelo Caetani, 32 - Roma) on 15 September at 16:00 
 

The event will be held in English

 

ISPI International Lectures are open to Graduate Students, Post-Docs, professionals with comparable levels of experience and education, who come together in a highly-stimulating environment to discuss their current research and build informal networks with their peers. 

 

 

TO ENROLL please contact: 

Miss Giulia Passerini

phone: +39 02 86 33 13 385

e-mail: seminari@ispionline.it

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Washington-Riyadh: la doppia transizione di potere e i teatri regionali

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Venerdì, 4 Settembre, 2015

Eleonora Ardemagni

L’incontro fra il presidente statunitense Barack Obama e il re saudita Salman bin Abdulaziz al-Saud, previsto il 4 settembre a Washington, ha un forte significato simbolico, dunque politico, ancor prima che strategico. Pertanto, il faccia a faccia tra i due storici alleati rappresenta, di per sé, il vero messaggio, che, dunque, precede i contenuti della stessa discussione e gli annunci che potrebbero seguirne. Infatti, Obama e re Salman si incontreranno a poche settimane dall’accordo sul nucleare fra l’Iran e i 5+1, nonché alla vigilia dell’approvazione dello stesso da parte del Congresso Usa. Soprattutto, i due leader si confronteranno dopo la rumorosa assenza del sovrano di Riyadh dal vertice Usa-Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) tenutosi a Camp David lo scorso maggio. 

La partnership speciale fra sauditi e statunitensi sta vivendo una stagione critica, che coincide con il secondo mandato di Obama alla Casa Bianca: il mancato intervento militare Usa contro il regime di Assad in Siria e la détente con Teheran hanno prima “surriscaldato” e poi “raffreddato” i rapporti tra gli alleati. La relazione di sicurezza fra Washington e Riyadh è oggi complicata dalla compresenza di due transizioni di potere: la prima, di natura sistemica, riguarda il Golfo e gli equilibri di forza tra sauditi, iraniani e statunitensi, mentre la seconda, di matrice interna ma dai riverberi regionali, si gioca nella famiglia reale dell’Arabia Saudita. Queste transizioni di potere, intersecandosi, condizionano i maggiori teatri di crisi mediorientali, Siria e Yemen, fra i temi al centro del bilaterale del 4 settembre. 

La prima transizione di potere vede gli Stati Uniti– i principali garanti esterni della sicurezza delle monarchie del Gcc – allontanarsi dal Golfo: essi si sono militarmente ritirati dall’Iraq, intravedono l’autosufficienza energetica, guardano all’universo asiatico. In questo quadro, l’Arabia Saudita assiste all’ascesa del rivale Iran, abile tessitore di alleanze transnazionali che, proprio grazie a quell’intesa sul nucleare fortemente voluta dalla Casa Bianca, sta ora tornando nel concerto delle diplomazie internazionali e prossimamente sul mercato petrolifero. La seconda transizione di potere va cercata nei palazzi sauditi: non solo nella successione a re Abdullah – scomparso in gennaio – che ha portato l’anziano Salman sul trono, ma soprattutto nelle odierne manovre di riposizionamento per la futura corona, quelle della generazione dei nipoti del fondatore Abdulaziz. 

Non è chiaro se fra il trentenne ministro della Difesa e vice principe ereditario Mohammed bin Salman (figlio del re) e il cinquantenne ministro degli Interni, l’attuale crown prince Mohammed bin Nayef, prevalga il “gioco delle parti” o sia in atto una reale competizione che passa anche attraverso i dossier regionali. Nelle delicate questioni di politica estera, Mohammed bin Salman, regista dell’operazione aerea della coalizione sunnita contro i miliziani sciiti houthi in Yemen, rappresenta – almeno mediaticamente – l’inedito attivismo militare di Riyadh; Mohammed bin Nayef, meno incline al protagonismo, è da sempre l’artefice delle politiche saudite di counter-terrorism. Di certo, re Salman sta affidando notevole spazio politico a questo “condominio”, tanto che lo scorso maggio hanno entrambi rappresentato la casa saudita al vertice di Camp David.

La politica estera dell’Arabia Saudita è condizionata da questa doppia (e incrociata) transizione di potere. L’impressione è che gli Stati Uniti, dopo aver chiuso l’intesa nucleare con l’Iran, abbiano ulteriormente assecondato l’escalation militare saudito-emiratina in Yemen; in compenso, sulla Siria, Riyadh ha cominciato a lavorare sul binario diplomatico e non solo su quello militare, pur senza rinunciare all’obiettivo geopolitico della caduta del regime di Damasco. 

Il teatro siriano è centrale, perché è il cuore del conflitto indiretto fra sauditi e iraniani per la supremazia regionale, dato che l’Iraq è ormai profondità strategica di Teheran; ma il trascurato Yemen è già Penisola arabica e confina con il regno wahhabita, che lo considera questione di sicurezza nazionale e non di politica estera. Ecco perché l’interferenza iraniana a Sana’a, spesso ingigantita poiché Ansarullah (il movimento politico houthi) persegue – a differenza dei nuovi Hezbollah libanesi – un’agenda locale, viene percepita dai sauditi già come un’ingerenza domestica.

In Yemen, gli Stati Uniti avrebbero da poco raddoppiato i consiglieri per l’intelligence (ora una cinquantina) per intensificare gli sforzi contro gli insorgenti settentrionali. Dalla metà di luglio, le variegate forze anti-houthi (esercito regolare, comitati popolari, milizie tribali sunnite, secessionisti meridionali, qaidisti) hanno ripreso Aden e vaste aree del paese. L’ingresso di forze speciali emiratine e saudite ha permesso ai filo-governativi di invertire i rapporti di forza sul campo, dopo mesi di vani bombardamenti. Gli insorti, ancora sostenuti da segmenti di esercito fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, hanno ripiegato nei territori centrali e mantengono il controllo della capitale Sana’a (oltre che dei fortini lungo il confine con Riyadh). La battaglia per Sana’a, secondo i militari sauditi, potrebbe iniziare presto.

Nel sud dello Yemen, Washington non ha mai smesso di impiegare i droni contro al-Qaida nella Penisola arabica (Aqap). Dopo la riconquista di Aden, i miliziani qaidisti hanno però occupato parti della città, issando bandiere nere su alcuni uffici statali: il controllo del territorio rimane (e sarà) la grande incognita della fragile presidenza di Abdu Rabu Mansur Hadi, nonché fonte di preoccupazione regionale per la Casa Bianca. 

Sulla Siria, l’Arabia Saudita ha aperto un canale di comunicazione diplomatico con la Russia, complici gli attacchi rivendicati dallo Stato Islamico in Arabia Saudita e Kuwait: la visita di Mohamed bin Salman a Mosca, più il trilaterale di Doha fra i ministri degli Esteri Kerry-Lavrov-al-Jubeir, hanno rivitalizzato gli sforzi internazionali sulla crisi siriana. Dunque, Riyadh gioca adesso un ruolo diplomatico e non solo militare, mentre prosegue la cooperazione saudita con le milizie sostenute da Qatar e Turchia. L’Oman svolge il consueto ruolo di pontiere fra Arabia Saudita e Iran, mediando discretamente sui dossier Yemen e Siria, come testimonia la visita del capo della diplomazia di Damasco, Walid al-Mouallem, il 6 agosto scorso a Muscat. 

In questa fase di riallineamenti tattici, l’apparente riappacificazione fra Arabia Saudita e Qatar può divenire una risorsa anche per gli Stati Uniti. Re Salman ha ricomposto il fronte sunnita per serrare i ranghi in chiave anti-Tehran: ma la mediazione qatarina, sebbene più “pirotecnica” di quella omanita, può contribuire a stabilizzare alcuni archi di crisi. Il capo di Hamas, Khaled Meshaal, oggi di casa a Doha, ha incontrato il re saudita nel corso di un pellegrinaggio a Mecca; in Qatar si stanno svolgendo negoziati indiretti fra Hamas e Israele, con la benedizione degli al-Saud, che intendono allontanare Gaza dalle sirene iraniane. La volontà di fare blocco contro il ritorno politico ed economico dell’Iran ha spinto Riyadh a distendere i rapporti con la Fratellanza Musulmana, specie in Siria e Yemen. 

Una mossa che il presidente egiziano al-Sisi, economicamente dipendente dalle monarchie del Golfo, non avrà gradito, nonostante Egitto e Arabia Saudita abbiano appena siglato la “Cairo Declaration” per la cooperazione militare e sostengano la creazione, in seno alla Lega Araba, di una forza militare comune. Il rinvio – su proposta dei paesi Gcc – della riunione che avrebbe dovuto sancire l’approvazione della Joint Arab Army è coinciso con l’annuncio dell’incontro re Salman-Barack Obama e non è forse un caso. Come dichiarato da John Kerry, si va verso l’accelerazione delle forniture militari Usa all’Arabia Saudita (gli avanzati missili Pac-3, forse lo status di major non-Nato ally) e l’aumento delle esercitazioni militari congiunte.

Perché nel solco di Camp David, l’Arabia Saudita pretende rassicurazioni concrete in tema di difesa: prima di esse, l’ipotesi di una “nuova architettura di sicurezza” per il Golfo, condivisa tra Riyadh e Tehran, appare inverosimile. Intanto, i paesi Gcc proseguono nella diversificazione delle alleanze internazionali (vedi la visita del premier indiano Narendra Modi negli Emirati Arabi Uniti), continuando però a fare perno su Washington, con uno sguardo anche all’economia: il rallentamento cinese e l’impasse russa offrono, infatti, altri indizi per il vertice del 4 settembre.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di AffarInternazionali, Aspenia, ISPI, Limes. Gulf analyst per la NATO Defense College Foundation. Master in Middle Eastern Studies (ASERI).

Le voci della diplomazia e della politica sull'emergenza accoglienza

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Ricercatore: 
Data di pubblicazione: 
Lunedì, 7 Settembre, 2015
Occhiello: 
RaiNews24

Quanti sono i richiedenti asilo in Europa?

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Italiano

Il grafico riporta i dati delle domande di asilo accettate negli ultimi anni (inizio 2008-inizio 2014) da alcuni paesi europei (qui la lista completa). Germania, Svezia e Italia si distinguono per essere i paesi che in assoluto hanno accolto più richiedenti asilo. Alto non in termini assoluti ma in proporzione alla popolazione anche il dato di Malta. Questi quattro paesi sarebbero quindi tra i maggiori beneficiari di un sistema per la ripartizione dei richiedenti asilo tra i paesi europei.

Regno Unito e Francia, che hanno una popolazione leggermente maggiore a quella dell’Italia, hanno accolto attorno a 60 mila domande negli ultimi anni (il 65% di quanto fatto dall’Italia). Ancora più drammatica la differenza tra il nostro paese e la Spagna che, interessata principalmente da flussi di migranti economici,   ha accolto un numero di domande pari al 20% delle richieste accettate dall’Italia. Questi paesi, insieme a quelli dell’est potrebbero quindi essere tra i più penalizzati dall’introduzione di un sistema di quote comunitario.

 

 

Data di pubblicazione: 
Lunedì, 7 Settembre, 2015
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Budapest: l’Unhcr cerca stagisti per assistere i migranti

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08 Settembre 2015

Se le immagini delle auto che si sono recate in Ungheria per soccorrere i migranti ti hanno colpito, se le foto della gente che accoglieva i profughi con i cartelli “Welcome Refugees” ti hanno commosso, se vorresti essere a fianco dei volontari che stanno distribuendo cibo e vestiti a chi scappa dalla guerra, allora questo post è per te.

 

Per far fronte al crescente afflusso di migranti in transito lungo la rotta balcanica (l’Unchr stima che circa 3 mila persone attraversino ogni giorno la frontiera greco-macedone) l’Alto Commissariato per i Rifugiati ha già intensificato la propria presenza nei punti nevralgici ma ha bisogno di aiuto. Per questo l’Unhcr ha attivato una call per individuare giovani volenterosi e capaci che vogliano trascorrere un periodo di stage presso i suoi uffici di Budapest affiancando il personale presente in loco nelle attività di protezione legale dei rifugiati, relazioni internazionali e politiche, amministrazione e affari pubblici.

 

Gli stage hanno una durata da 2 a 6 mesi e non è stata fissata una deadline precisa per presentare la domanda. Tutto ciò che occorre fare è compilare il modulo presente sul sito dell’organizzazione.

I dati dei candidati saranno conservati in un database online per sei mesi durante i quali i manager dell’organizzazione potranno accedere per cercare i profili più idonee alle attività da svolgere e contattare le persone selezionate.

 

Se vuoi dare una mano nella gestione di una delle crisi umanitarie più gravi che abbia colpito l’Europa negli ultimi anni, questa può essere la tua grande occasione, non fartela scappare!

 

Inoltre, se sei interessato a questi temi perché non partecipare a uno dei nostri corsi del diploma in “Emergenze Umanitarie”. I prossimi appuntamenti sono: “Il negoziato nelle crisi umanitarie” (21-22 settembre) e “Paesi ad alto rischio e sicurezza personale” (23-24 settembre).

 

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