La pervasività della rivoluzione digitale è stata largamente sottovalutata dalle scienze sociali. Gran parte della letteratura scientifica ruota, infatti, attorno a tre categorie concettuali: Cyberspace, Arena Digitale e Infosfera, ciascuna delle quali tende, a mio avviso, a collocare la rivoluzione digitale in recinti cognitivi troppo ristretti.
Il termine "Cyberspace" (ampiamente utilizzato dagli studiosi di Relazioni Internazionali e Studi Strategici) ha il merito di mettere in luce lo sviluppo di un nuovo dominio artificiale (il "V dominio") che si affianca ai quattro domini naturali: terra, mare, cielo e spazio. Tuttavia l’irruzione delle tecnologie digitali non è certo circoscritta a tale ambito. Essa produce effetti dirompenti anche nei quattro domini tradizionali; si pensi - ad esempio - alla tumultuosa e radicale rivoluzione in atto nel settore militare e nei processi industriali.
Il termine – tipicamente politologico – "Arena Digitale" presenta limiti analoghi nonché qualche ulteriore complicazione di carattere semantico. E’ certamente corretto parlare di una Arena Digitale globale in cui competono (e talora cooperano) attori statuali e non. Ma si tratta veramente di un’arena funzionale come le altre? Questa visione tecno-settoriale appare riduttiva perché, come vedremo meglio più avanti, la dimensione digitale si configura come assolutamente trasversale e pertanto rappresenta – per usare una metafora – l’ "Arena delle Arene", con rilevantissime implicazioni in materia di sicurezza a livello interno e internazionale.
La definizione di arena può considerarsi riduttiva anche per un altro motivo. Secondo alcuni autori le Reti (e Internet in primis) non sono solo arene, ma anche attori. Non c’è qui lo spazio per discutere quanto sia corretto ontologizzare ed elevare genericamente il web al rango di player, ma queste astrazioni intellettuali costituiscono una ulteriore riprova del carattere pervasivo della rivoluzione tecnologica in atto.
Più complessa si presenta, infine, l’analisi critica del terzo concetto cui ho accennato più sopra, quello di Infosfera. Per Luciano Floridi questo termine (di matrice filosofica) sintetizza un insieme di “concetti informazionali” che costituiscono – a suo avviso – la stella polare per comprendere le dinamiche più profonde della contemporaneità. Lo studio dell’Infosfera sottende pertanto intriganti quesiti di natura normativa e domande di senso, nonché stringenti dilemmi di carattere etico-pratico (i.e. go public vs criptare, rispettare la privacy vs invadere, uso sociale vs speculazione mercantile di Big Data, ecc.)
Per quanto Luciano Floridi nella sua definizione alluda a uno spazio semantico particolarmente ampio (contenuti, agenti e processi, ecc.) neppure il termine Infosfera rende – a mio avviso – pienamente giustizia alla pervasività della rivoluzione digitale. La dimensione informativa è certamente fondamentale – come hanno anticipato venti anni orsono Alain Touraine e Manuel Castells nei loro visionari lavori sulle dinamiche della società dell’informazione. Tuttavia l’impatto della rivoluzione digitale travalica i confini della "società dell’informazione". Bruce Schneider della Harvard Kennedy School of Government ha recentemente dichiarato: "Cyber is the World of Everything". Queste parole – nella loro essenzialità – rappresentano, a mio avviso, la descrizione più accurata della ‘società digitale’ in cui viviamo (e ancor più quella in cui sono destinati a vivere i nostri figli ed i nostri nipoti).
In quanto "World of Everything", le tecnologie digitali si diffondono a macchia d’olio in ogni segmento della società e condizionano a tal punto gli individui da riuscire a toccarne perfino le dimensioni esistenziali della vita e della morte. Parafrasando Lord Beveridge, possiamo affermare che le tecnologie digitali ci accompagnano lungo tutto l’arco dell’esistenza: "from craddle to grave". Oggi, insomma, al sostantivo società è imperativo affiancare l’aggettivo digitale.
Sul piano dell’individuo basta la manomissione da remoto (dolosa o volontaria) di un medical device anti-diabete installato nel corpo di una persona per provocarne la morte quasi istantanea. E sul piano della politica internazionale, come ha segnalato alcuni anni fa Nazli Chrouci, la dimensione digitale è ormai entrata a pieno titolo nella agenda High Politics della sicurezza nazionale, della difesa e della diplomazia.
E tuttavia sul piano pratico – nonostante i principi affermati dalle nuove dottrine militari – le tecnologie digitali continuano a essere utilizzate per azioni coperte, interferenze clandestine, manovre di disturbo dell’avversario, provocazioni a bassa intensità, PSI Ops, spionaggio e controspionaggio, disinformazione, ecc. In altre parole nonostante le dichiarazioni solenni alle Nazioni Unite e in altri forum internazionali sulla gravità delle minacce cyber, alcuni attori statali continuano, come se niente fosse, "a giocare col fuoco".
Sono certamente apprezzabili i passi in avanti compiuti con la Presidenza Italiana del G7 in materia cyber (al vertice di Lucca in particolare), ma il potenziale altamente disruptive della rivoluzione digitale, che non ha niente da invidiare agli ordigni nucleari, resta gravemente sottovalutato, sia a livello delle élites politico-militari che dell’opinione pubblica.
Nonostante l’allarme sui nuovi rischi derivati dall’Internet of Things (IOT) e alla diffusa consapevolezza che le infrastrutture critiche sono di fatto dual use, i tentativi di adottare – a livello multilaterale e bilaterale – confidence building measures in ambito cyber attraversano una prolungata fase di stallo. Anche il gruppo di lavoro dell’Onu nel giugno 2017 ha concluso anticipatamente la propria attività senza produrre risultati.
La società digitale in cui siamo immersi si presenta dunque come una realtà ricca di nuove opportunità, ma certamente molto fragile e vulnerabile, una società in cui comportamenti digitali propri del "Wild West" (l’espressione è di Obama) moltiplicano i rischi per la nostra sicurezza individuale e collettiva. Ma a questo incontrovertibile dato di fatto non corrisponde una percezione diffusa delle minacce incombenti sia a livello micro (l’esempio del paziente con dispositivo sanitario digitale) sia a livello macro (la minaccia di un cyberattack a un impianto nucleare di matrice militare).
Come spiegare questo gap? Uno dei fattori esplicativi, anche se certamente non l’unico, è – a mio avviso – il linguaggio suadente, adolescenziale, rassicurante, ma criptico che caratterizza la comunicazione subliminale dei cosiddetti "Big Digital Players" nei confronti dei propri consumatori. L’ideologia di fondo è elementare. Si tratta di presentare i miti della ‘SiliconValley’ con lo stesso format di un cartone animato: tutto è smart, easy, trendy, divertente, magico, scherzoso, anche pauroso, ma sempre e comunque a lieto fine, protezione del tuo smartphone compresa (secondo i canoni di cybersecurity dell’ultima moda).
In questo ambiente così rassicurante si nasconde tuttavia un lato oscuro, con un set di domande senza risposta. Quando qualcosa va storto, chi è che non ti ha protetto adeguatamente? Chi ne risponde? La vulnerabilità dipende dalla organizzazione di cui fai parte o dalla supply chain? E più in generale, quale è il perimetro della tua libertà? Cosa significa una società digitale aperta? Chi paga gli eventuali danni?
Per una serie di conseguenze negative che hanno colpito le imprese (quali furti di proprietà intellettuale o di informazioni sensibili sui propri clienti) e tenendo conto della estrema difficoltà di identificare chi si nasconde dietro gli attacchi da qualche anno si sono mobilitate in forza le compagnie assicurative con polizze mirate alla copertura dei "cyber rischi". Ma – come abbiamo già accennato – alcuni incidenti di percorso possono toccare questioni di vita e di morte. In questo caso non bastano le assicurazioni e non c’è Microsoft o Google che tenga, supposto che intendano farsene carico.
Piaccia o non piaccia quando si tratta di questioni di vita o di morte chi entra in gioco sono i poteri sovrani. Solo lo Stato dispone del monopolio legittimo della forza e dell’intelligence, solo lo Stato è dotato di procure per indagare e tribunali per giudicare. Spetterebbe dunque allo Stato proteggere i propri cittadini dai pericoli derivanti dalla rivoluzione digitale, così come spetterebbe a esso stabilire di volta in volta quale sia il giusto equilibrio tra i valori della libertà e i valori della sicurezza nel nuovo contesto digitale.
Tuttavia utilizzare il condizionale è d’obbligo perché gli Stati sovrani si muovono all’interno di limiti ben definiti e non sono in grado di imporre le proprie leggi fuori dai rispettivi confini. Una recente disposizione normativa italiana prescrive che in taluni casi un post debba essere rimosso entro 48 ore. Ma che succede se Facebook, Twitter o qualunque altro social non applicano la disposizione?
Il tema a cui abbiamo appena accennato evoca il principale mismatch e, al tempo stesso, la maggiore asimmetria della società digitale: la domanda di sicurezza si esprime in una dimensione globale, l’offerta di sicurezza (e giustizia) si manifesta viceversa in forme essenzialmente nazionali.
A livello globale, invece, le vicende appaiono assai più complicate: non è facile difendere Internet cosi come si presenta oggi (per il dark web in primis); visioni divergenti in materia di cooperazione internazionale convivono tra gli stessi paesi democratici, alcuni Stati autoritari fanno appello alle Nazioni Unite, ma di fatto favoriscono un processo di “balcanizzazione” dell’universo digitale; gli attori non governativi più potenti (le più grandi multinazionali) cercano, infine, di smarcarsi dalla dipendenza dai brand della Silicon Valley e agire in proprio. A fare da apripista è General Electric (GE), ma altri colossi industriali stanno seguendo la stessa strategia.
In un contesto così complesso definire un minimo comune denominatore a livello internazionaleè indispensabile se non vogliamo farci travolgere dalle sfide della rivoluzione tecnologica e dalle tensioni politiche ed economiche a essa correlate. Sotto questo profilo una spinta propulsiva può venire dal mondo accademico e dall’avvio di una sistematica cooperazione tra università di paesi diversi.
In questa direzione intendo lanciare un suggerimento pratico. Qualora sul termine “società digitale” si registri un consenso sufficientemente ampio, la ricerca ha davanti un compito specifico: definire le “proprietà caratteristiche” della società digitale, altrimenti essa resta una espressione vuota, priva di definizione operativa.
A questo proposito, insieme a Barbara Carfagna, abbiamo presentato nel gennaio scorso all’Università di Tel Aviv una prima lista di sei proprietà che – a nostro avviso – costituiscono i tratti distintivi e caratterizzanti della società digitale. Per ragioni di spazio mi limito ad elencare le sei proprietà caratteristiche senza poterne approfondire il significato: 1) iper-velocita; 2) iper-memoria; 3) iper-connettività; 4) iper-automazione; 5) tracciabilità/capacità mimetica e di camuffamento; 6) iper-potenza magnetica.
Marco Mayer, docente in Conflict and Peace Building, Dipartimento di Scienza Politica, Università Luiss Guido Carli, Roma
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