Discussione sulle nuove di regole di condotta delle ONG
MID 2017-2018
Master in Diplomacy - Corso di preparazione al concorso diplomatico
Corso di preparazione al Concorso di Segretario di Legazione a.a. 2017-2018
Master Ex Allievi 2
programmi e materiale per gli ex allievi che vogliono tentare il concorso
Foreign Actors in the Libya’s Crisis
Since 2011 the Libyan crisis has moved from being a domestic dispute to assuming increasing importance at the international level. Today it represents a crucial issue affecting global security. The intervention of external actors in the Libyan crisis was mainly driven by a desire to direct the transition towards outcomes that would best meet their own political and economic interests. Accordingly, each external player tried to support one specific faction, favoring either the Parliament in Tobruk, upheld by Khalifa Haftar, or the Presidential Council headed by Fayez al-Serraj in Tripoli, the latter being legitimized by the UN as well as by local militias in both Misrata and Tripoli. This report analyzes the troublesome re-building of Libya with a focus on the specific role played by international actors (neighboring and Gulf countries, European nations, Russia and the US) which make it more of an international rather than a domestic issue.
KARIM MEZRAN is Senior Fellow at the Atlantic Council’s Rafik Hariri Center for the Middle East. He is also an Adjunct Professor of Middle East studies at the Johns Hopkins School of Advanced International Studies (SAIS).
ARTURO VARVELLI is ISPI Senior Research Fellow and Head of North Africa Program. He is lecturer of History and Institution of the Middle East at IULM University in Milan and coordinator of the training course on the new forms of terrorism at ISPI.
Protecting Religious Communities: What role for Youth?
Despite a proliferation of policies and multilateral initiatives, a growing number of communities and individuals around the world have been persecuted or seriously discriminated against because of their religion in the last few years. How can new political and diplomatic efforts counter this trend? Can intercultural dialogue and engagement with religious actors, civil societies and youth provide tools to move forward? International experts, policy makers and religious leaders gathered in Rome on 13 July to discuss these issues at the conference “Protecting Religious Communities. Investing in Young People as Leaders of New Opportunities for encounters, dialogue and peaceful coexistence between peoples”. The event, promoted by the Italian Ministry of Foreign Affairs and International Cooperation and ISPI, paid special attention to the current situation in the Middle East and Mediterranean. Italian Minister of Foreign Affairs Angelino Alfano, Secretary for Relations with States of the Holy See Mons. Paul Gallagher and Secretary General of the Italian Ministry of Foreign Affairs, Amb. Elisabetta Belloni, opened the conference while ISPI President Amb. Giampiero Massolodelivered the closing remarks. (See full list of participants) |
Videos of the conference |
OBOR WATCH. Geo–economia delle Nuove Vie della Seta
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La spartizione della Siria non è sinonimo di pacificazione
Andrea Glioti
L’ultimo cessate il fuoco mediato da Usa e Russia– il quinto di una serie a dir poco fallimentare dal 2011 – è l’ennesimo tassello nella spartizione della Siria tra potenze regionali e internazionali, e difficilmente potrà presentarsi come una tappa credibile nella risoluzione del conflitto.
Innanzitutto i termini dell’attuale tregua mancano di trasparenza: l’annuncio di domenica 9 luglio riguardava le tre province meridionali di Quneitra, Daraa e Sweida, ma, a pochi giorni dall’entrata in vigore, le forze leali a Damasco hanno avviato un’offensiva contro i ribelli nel nord-est della provincia di Sweida, e in questo momento avanzano indisturbati nella Badia desertica della Siria orientale. La relativa quiete del fronte meridionale sta pertanto permettendo ai sostenitori del regime di Assad (e ai russi) di guadagnare terreno in quella corsa per la riconquista di Deir-Ezzor (provincia ricca di risorse energetiche controllata dal sedicente Stato islamico, IS) a cui partecipa senza troppa convinzione anche Washington.
Più che un passo verso la pacificazione su scala nazionale, la tregua in vigore appare dettata da interessi di respiro regionale, con una chiara priorità per la sicurezza di Israele, il principale stato confinante interessato alle sorti delle province meridionali e al contenimento dell’influenza iraniana nei pressi delle alture occupate del Golan. Tel Aviv ha infatti esplicitato più volte che il presupposto di un suo appoggio alle cosiddette “zone di de-escalation” è il ruolo di garante che la Russia è chiamata a ricoprire per mantenere a debita distanza le milizie filo-iraniane operative in Siria. Non è da escludere che il prezzo da pagare per l’esclusione di Teheran dalla “zona” meridionale sia proprio il via libera nelle regioni orientali.
Nel quadro di queste aree di influenza delineate da Russia, Iran e Turchia nei colloqui in corso ad Astana permangono inoltre una serie di nodi irrisolti. Uno di questi riguarda le sorti della regione nord-occidentale che verrà affidata in gestione alla Turchia, e corrisponde all’incirca alla provincia di Idlib e al nord di quella di Aleppo. Le intenzioni turche di annettere a tale zona l’enclave curda di Afrin con il consenso russo – contro cui si sono già levate le voci della leadership militare curdo-siriana – aprirebbero un nuovo fronte nella guerra di Siria, complicando notevolmente la posizione di Washington, che continua a puntare soprattutto sui curdi per ampliare la propria sfera d’influenza nel nord-est siriano. L’incognita curda è solo una delle questioni non affrontate nell’attuale piano di spartizione della Siria, come dimostra l’assenza dei delegati del Rojava ai negoziati di pace di Ginevra e ai colloqui di Astana, a dispetto dell’estensione dei territori attualmente controllati.
Di portata ancora maggiore rispetto alla causa curda, ma a essa correlata,è poi l’assenza totale di una dimensione politica nei tentativi di risoluzione del conflitto. A oggi, i rappresentanti del regime e quelli delle opposizioni non si sono mai parlati direttamente, rimanendo dipendenti dalla mediazione Onu. Nessuna delle tematiche politiche alla radice dell’insurrezione popolare e del successivo conflitto è stata affrontata seriamente in sede diplomatica.
Le “zone di de-escalation” rimangono un prodotto dell’approccio militarista, incentrato unicamente sull’“anti-terrorismo”, adottato unanimemente dalle cancellerie internazionali – e inteso esclusivamente come lotta a gruppi paramilitari di orientamento jihadista sunnita – e non si può aspettarsi che contengano una soluzione a contenziosi politici ben più complessi. Questi comprendono il processo di decentralizzazione connesso all’implementazione del Decreto legislativo 107 - approvato da Damasco nel 2011 - e la sua interazione con la proposta federalista dei curdi e le rivendicazioni delle opposizioni; il destino di chi si è macchiato di crimini di guerra (compresi, naturalmente, i vertici del regime di Assad); le riforme necessarie alla democratizzazione delle istituzioni e i relativi meccanismi di monitoraggio internazionale; la sorte di decine di migliaia di prigionieri politici. Invece, sull’onda della “lotta al terrorismo” si continua a seminare distruzione e si tracciano i nuovi confini destinati a contenere i rispettivi interessi strategici, ma non si riconciliano di certo i siriani in guerra.
Andrea Glioti, giornalista freelance e editor di SyriaUntold
Il fronte più pericoloso: la guerra per la Siria orientale
Eugenio Dacrema
La Siria di domani è un puzzle che si sta lentamente, e dolorosamente, componendo. E, una volta completato, conserverà ben poco del paese che fu. Nonostante la retorica e le roboanti dichiarazioni del regime di Bashar al-Assad, è ormai chiaro infatti che la Siria sia sempre meno destinata a tornare a essere un paese unitario e sempre più condannata a diventare uno “spazio geografico”, diviso per zone d’influenza fra fazioni interne, stati regionali e potenze internazionali. L’accordo in discussione sulle "zone di de-escalation" potrebbe segnare il punto di non ritorno di questo processo.
A ovest, da oltre un anno, si sta consolidando il potere di Assad sui principali centri urbani e sulla costa, quell’insieme di arterie che collegano Damasco ad Aleppo e Latakia e definito dai tempi dell’occupazione francese la “Siria utile”; dove risiedono la maggioranza degli abitanti e dove si svolgono le principali attività economiche. All’interno di quest’area, soprattutto nella zona di confine col Libano, si consolida anche il potere dell’Iran e di Hezbollah, che da mesi stanno rendendo la propria presenza in alcuni villaggi chiave dell’area permanente, attraverso trasferimenti forzati di popolazione e vere e proprie campagne di colonizzazione.
Ma la cosiddetta “Siria utile” rappresenta meno di un terzo del paese. Nel frattempo il sud, dal Golan al governatorato di Daraa’ lungo i confini con Israele e la Giordania, è sempre più vicino a diventare una zona di influenza giordana, col supporto diretto degli USA e quello meno appariscente (ma non meno determinante) di Israele. Tale zona permetterebbe ad Amman di avere un controllo diretto sui propri confini, soprattutto in chiave di lotta alle infiltrazioni jihadiste, e agli Stati Uniti di poter contare su una zona di intervento rapido in caso di recrudescenza della minaccia terroristica in quest’area, o di eccessivo consolidamento del potere iraniano in Siria.
A nord la situazione è invece ancora in fase di coagulazione, ma i tratti principali si cominciano a intuire. In primo luogo, sembra consolidata la zona di influenza turca nell’area di Al-Bab che, non appena riuscirà a ottenere luce verde da Washington o Mosca, Ankara spera di poter allargare verso Afrin a discapito delle milizie curde del YPG. In questa zona sono già confluiti molti guerriglieri e rifugiati da quasi tutte le aree riconquistate dal regime nell’ultimo anno, aumentando notevolmente la pressione demografica su questo piccolo territorio. E la pressione potrebbe ulteriormente aumentare se un accordo tra regime e opposizione – simile a quello che portò all’evacuazione di Aleppo – porterà nei prossimi mesi all’evacuazione di Idlib, ultimo centro urbano significativo nelle mani dei ribelli. Nonostante ci siano ancora domande senza risposta sul futuro di quest’area del paese – per esempio, il possibile allargamento verso Afrin – sembra ormai chiaro che i principali attori coinvolti siano consapevoli della necessità di preservare la presenza di una “zona sicura”, all’interno della quale i ribelli non-qaedisti si sentano abbastanza garantiti da una potenza amica per poter finalmente deporre le armi.
Nel nord-est, lungo il confine con la Turchia, il braccio siriano del Pkk, il Pyd, e la milizia ad esso affiliata, il Ypg, hanno un potere ormai consolidato. Tutti gli attori coinvolti sembrano infatti ormai concordare sul fatto che qualche tipo di entità autonoma curda nascerà in quest’area al termine del conflitto. Le uniche voci contrarie sono quelle della Turchia, preoccupata che tale evenienza porti a un rafforzamento del Pkk e a una recrudescenza delle sue attività militari in territorio turco, e quella del regime di Assad, che ha affermato in più occasioni di voler riportare sotto il controllo diretto di Damasco l’intero paese. Due voci nemiche e per adesso troppo deboli per piegare la situazione a proprio favore, ma la cui armonia su questo tema potrebbe aprire inediti scenari su potenziali future alleanze di convenienza.
Regime e alleati (iraniani, filo-iraniani e russi) a est, giordani (e americani) a sud, curdi e turchi a nord: il puzzle si sta lentamente componendo. Ma manca un pezzo fondamentale e potenzialmente in grado di trascinare il conflitto ancora per lunghi mesi, se non anni: l’Est. Dominato dallo Stato islamico negli ultimi tre anni, l’Est è l’unica area del paese dove i giochi sono ancora completamente aperti e dove, in assenza di un credibile accordo politico preventivo, si concentreranno gran parte delle tensioni future. Negli ultimi due mesi l’area ha visto l’accavallarsi di mire e interessi contrapposti, sfociati in incidenti a pericoloso rischio di escalation, come in occasione del bombardamento delle postazioni delle Syrian Democratic Forces– l’alleanza composta da Ypg e milizie arabe dell’opposizione, armata e assistita dall’esercito americano oggi impegnata nell’assedio di Raqqa – da parte del regime di Damasco a cui è seguito l’abbattimento di un caccia siriano da parte dell’aeronautica americana. Oppure il raid lanciato sempre dagli americani contro un gruppo di miliziani vicini al regime che si dirigevano verso la base di Al-Tanf, vicino al confine giordano, oggi occupata dalle forze speciali statunitensi.
Da parte sua, il regime di Damasco cerca di reimporsi come attore fondamentale nei giochi politici nell’est del paese, da cui è stato sostanzialmente assente per oltre quattro anni. Per riuscirci ha anche sospeso le principali offensive nel nord del paese, in particolare a Idlib, nel governatorato di Hama, e nel sobborgo damasceno di Ghouta, ancora in mano all’opposizione. La decisione è stata motivata da due fattori principali: da una parte, recuperare le principali aree di estrazione di idrocarburi, soprattutto intorno a Deir-Ezzor. E, dall’altra, agevolare gli obiettivi strategici dell’Iran, principale alleato del regime e fornitore di gran parte dei suoi combattenti. Teheran infatti mira da tempo a istituire un corridoio diretto che colleghi il proprio territorio al Libano attraverso Siria e Iraq.
È a questo disegno che si oppone la crescente presenza statunitense nel sud, soprattutto nella base di Al-Tanf, sostenuta dalla rinnovata postura anti-iraniana dell’amministrazione Trump. Nel frattempo gli americani, e la coalizione da essi guidata, sono impegnati a sostenere lo sforzo della Sdf per la conquista di Raqqa. Una conquista che segnerebbe la fine di qualunque controllo territoriale significativo dello Stato Islamico ma che pone diversi quesiti dalla difficile risposta relativi al futuro di quest’area. Se da una parte, infatti, gli americani si dicono favorevoli a un controllo almeno temporaneo delle Sdf – a maggioranza composte dallo Ypg curdo – dall’altra i loro alleati – la Turchia, certamente, ma anche gli stati europei – sono scettici su tale soluzione, che rischierebbe di imporre sulla città arabo-sunnita un controllo de facto a dominio curdo. Una situazione che rischierebbe di amplificare recriminazioni e tensioni sociali in una fase estremamente delicata. Il tema è stato per settimane al centro dei colloqui a porte chiuse tra gli Stati Uniti e i loro alleati e non sembra ancora completamente risolto. Escludendo la riconsegna della città al regime – soluzione inaccettabile per l’amministrazione americana e per i suoi alleati – l’unica alternativa che resta è un auto-governo formato da rappresentanti della popolazione locale. Una popolazione che per oltre due anni è stata governata dallo Stato islamico, di cui pochi si fidano davvero, e il cui auto-governo resterebbe estremamente fragile senza una protezione esterna che nessuna potenza regionale o internazionale, inclusi gli Stati Uniti, sembra disposta a garantire. Il compromesso che sembra emergere è quindi un consiglio locale composto da autoctoni che si occupi dell'amministrazione civile, ma tutelato (e "monitorato") da forze di sicurezza controllate dalle Sdf.
Mentre in Iraq la domanda è se il fragile e diviso governo di Baghdad sarà in grado di amministrare adeguatamente la riconquista di Mosul, in Siria, nei giorni dell’assedio di Raqqa, non è ancora chiaro nemmeno a chi dovrà andare esattamente il controllo di quest’area dopo la cacciata del califfato. Tutto questo mentre, poco più a sud, crescono le tensioni tra Stati Uniti e Iran – e i loro alleati locali – per il controllo del confine tra Siria e Iraq. Un’altra partita, l’ennesima, giocata in territorio siriano da attori e secondo logiche che ben poco hanno a che fare con gli interessi e la popolazione della Siria.
Eugenio Dacrema, dottorando presso l'Università di Trento e ISPI Associate Research Fellow
Il futuro dei curdi siriani in mano al Pkk e alla Turchia
Stefano M. Torelli
I curdi siriani sono assurti a campioni della lotta sul campo contro l’Isis a suon di finanziamenti logistici e militari e di incensamenti da parte di tutta la comunità internazionale. La riconquista di Raqqa, capitale dell’autoproclamato califfato di al-Baghdadi, è soltanto l’ultima, e sicuramente tra le più simboliche, delle tappe di un cammino che, almeno dal 2014, vede i curdi in prima linea contro i jihadisti. In nome della guerra all’Isis i curdi siriani (insieme, va detto, ai peshmerga iracheni) sono stati uno dei punti di riferimento delle politiche occidentali volte al contenimento e alla sconfitta militare dello Stato islamico. È anche per questo che, nel contesto della guerra civile siriana, i curdi sono riusciti a guadagnare uno status invidiabile di attore di fatto autonomo, con tanto di un’area sotto il proprio controllo territoriale e l’istituzione del Rojava, una sorta di repubblica semiautonoma curda nel nord della Siria.
Cosa vuol dire tutto questo? Nel breve termine, abbiamo visto come i curdi siriani siano stati in grado di ottenere delle indiscutibili vittorie politiche. Tuttavia, nel medio-lungo termine, e soprattutto in un eventuale scenario post-Isis, tutto ciò potrebbe rivolgersi contro i curdi stessi, con il rischio che le conquiste ottenute negli ultimi tre anni finiscano per vanificarsi. Tale scenario potrebbe verificarsi soprattutto per due ragioni: da una parte, nel caso il sostegno degli attori esterni (ma in misura particolare degli Stati Uniti) dovesse venire meno e dall’altra, al di là del confine turco-siriano, se il governo di Ankara dovesse passare a un’offensiva volta a vanificare la situazione ottenuta sul campo dai curdi siriani.
Da un lato, resta ancora da vedere quanto gli Stati Uniti vorranno o potranno permettersi di continuare a sostenere il Pyd, ritenuto una sorta di costola siriana del Pkk. Il punto non è tanto il sostegno logistico che fino ad oggi, e tramite le forze del Sdf (Forze Democratiche Siriane), Washington, insieme agli alleati europei, ha fornito ai guerriglieri curdi dell’Ypg (braccio armato del Pyd e, di fatto, esercito del Rojava). Piuttosto, sarà da capire se e fino a che punto gli Stati Uniti avranno intenzione, una volta terminato lo scontro con l’Isis, di tollerare il progetto politico del Rojava. Qui vi è un’altra considerazione da fare: sebbene non si tratti esattamente della stessa forza politica, il Pyd ha effettivamente ricevuto un importantissimo e in alcune fasi imprescindibile aiuto da parte del Pkk. Quest’ultimo era presente in Siria fin dagli anni Novanta, quando il regime di Hafez al-Assad dava protezione ad Abdullah Ocalan in funzione anti-turca. Da anni il Pkk ha intessuto contatti con i curdi siriani, favorendo la stessa nascita del Pyd, e ha addestrato centinaia di guerriglieri curdi siriani. Dal 2013-2014 in poi, nel contesto della guerra civile siriana, e di fronte a una Turchia che inizialmente non ha alzato un dito per aiutare i curdi siriani assediati e massacrati dall’Isis, è stato proprio il Pkk a stabilire dei canali di contatto con il Pyd e a fornire il sostegno militare necessario per combattere l’Isis sul campo. Volendo tracciare un parallelo, si potrebbe quasi affermare che, per il Pyd, il Pkk rappresenti ciò che le forze iraniane rappresentano per le forze armate di Bashar al-Assad in Siria: una costante fonte di addestramento, supporto sul campo e sostegno politico.
È facile dunque intuire quanto, in misura proporzionale al coinvolgimento del Pkk nel contesto siriano, per la Turchia la questione dei curdi siriani stia diventando sempre più un’ossessione. A questo punto vi è da prendere in considerazione la strategia di medio-lungo termine dello stesso Pkk. Continuerà a usare la Siria – e la posizione di forza assunta sul campo dai curdi siriani – soltanto come tassello del più ampio conflitto contro la Turchia, oppure opererà una netta differenziazione tra la “questione Siria” e lo scontro con Ankara? Di base vi è la considerazione che molte posizioni amministrative e di comando all’interno delle aree attualmente governate dai curdi siriani nel Rojava siano nelle mani della generazione che ha ricevuto negli anni passati un diretto addestramento da parte del Pkk. Si tratta, dunque, di quell’ala dei curdi siriani che continuano a percepire la propria posizione in Siria soltanto in funzione della guerra con la Turchia: in quest’ottica, il risultato ottenuto sul campo in Siria non sarebbe tanto funzionale all’avvio di una nuova stagione politica autonoma per i curdi siriani, quanto a esercitare una maggiore pressione su Ankara, utilizzando le postazioni siriane per rinvigorire gli attacchi contro la Turchia e facendo rientrare il Rojava in un progetto più ampio di istituzione di una sorta di Kurdistan autonomo e confederato a cavallo tra il nord della Siria e il sud-est della Turchia. Tale atteggiamento realisticamente produrrà soltanto un irrigidimento della Turchia, che porterà il conflitto contro i curdi fin dentro la Siria.
In tale quadro, sembra difficile che Washington possa continuare a sostenere in maniera così aperta i curdi siriani, non tenendo in considerazione le preoccupazioni della Turchia. In alternativa, il Pkk potrebbe decidere di capitalizzare le conquiste in Siria lasciando ai curdi siriani la gestione della transizione verso una sperata autonomia, ma evitando di collegare tali sviluppi a quelli in Turchia. In tal modo, il Pkk potrebbe tentare di giocare la carta “politica”, tornando al tavolo dei negoziati con la Turchia e dando segnali di distensione. Tale soluzione, al momento, sembra essere meno perseguibile anche per effetto della posizione molto dura assunta da Erdogan, che negli ultimi due anni ha optato per un dispiegamento di forze fin dentro i centri urbani del Kurdistan turco volto ad annichilire il Pkk.
In tale contesto, il destino del Pyd e dei curdi siriani in generale sembra essere più nelle mani degli attori esterni che non delle proprie volontà. Difficilmente gli Stati Uniti potranno continuare a sostenere i curdi siriani qualora dovesse cadere l’elemento giustificativo, ovvero la presenza dell’Isis, e al contempo costoro (spinti dal Pkk) dovessero assumere una posizione percepita come minacciosa dalla Turchia. In attesa di vedere gli sviluppi del conflitto siriano, sarà nel Kurdistan turco e ad Ankara che si dovrà guardare per capire l’evolversi della situazione nel Kurdistan siriano.
Stefano M. Torelli, ISPI Associate Research Fellow
Siria: la guerra non è finita
Dopo mesi di crescenti tensioni tra gli attori internazionali, regionali e locali coinvolti nel conflitto siriano, con il primo faccia a faccia tra Trump e Putin al recente G20 di Amburgo è arrivato un “accordo” per il cessate il fuoco tra le parti. Un passo risolutivo? Solo in apparenza, perché oggi, mentre gli occhi del mondo sono ancora puntati su Mosul liberata dall’Isis, le tensioni e le incognite sul futuro della Siria continuano ad aumentare: come si configureranno le “zone d’influenza” che le potenze internazionali coinvolte — dalla Russia all’Iran, dalla Turchia agli Stati Uniti — stanno già da tempo cercando di conquistare? Come ne uscirà il regime di Damasco, troppo debole per sopravvivere senza l’aiuto di Mosca e Teheran? Cosa riusciranno a ottenere i curdi, i principali alleati degli Usa sul terreno? Chi controllerà l’area orientale della Siria, quella ricca di idrocarburi al confine con l’Iraq? E come si sta preparando il Califfato per reagire alla perdita di territorialità, mentre l’assedio di Raqqa, la sua seconda roccaforte, è ancora in corso?
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Siria: la guerra non è finita
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Dopo mesi di crescenti tensioni tra gli attori internazionali, regionali e locali coinvolti nel conflitto siriano, con il primo faccia a faccia tra Trump e Putin al recente G20 di Amburgo è arrivato un “accordo” per il cessate il fuoco tra le parti. Un passo risolutivo? Solo in apparenza, perché oggi, mentre gli occhi del mondo sono ancora puntati su Mosul liberata dall’Isis, le tensioni e le incognite sul futuro della Siria continuano ad aumentare: come si configureranno le “zone d’influenza” che le potenze internazionali coinvolte — dalla Russia all’Iran, dalla Turchia agli Stati Uniti — stanno già da tempo cercando di conquistare? Come ne uscirà il regime di Damasco, troppo debole per sopravvivere senza l’aiuto di Mosca e Teheran? Cosa riusciranno a ottenere i curdi, i principali alleati degli Usa sul terreno? Chi controllerà l’area orientale della Siria, quella ricca di idrocarburi al confine con l’Iraq? E come si sta preparando il Califfato per reagire alla perdita di territorialità, mentre l’assedio di Raqqa, la sua seconda roccaforte, è ancora in corso? (Image credit: REUTERS/Mahmoud Hassano)
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TRADE WATCH Globalizzazione 4.0: termometro del libero scambio
FOCUS | UE–Cina: per Berlino e Parigi è l’ora di giocare in difesa
Le relazioni commerciali tra Unione europea e Cina stanno vivendo una fase assai delicata. Un momento difficile docuto soprattutto al mancato riconoscimento europeo dello status di economia di mercato alla Cina in seno al World Trade Organization (Wto), che avrebbe modificato l’applicabilità delle misure anti–dumping contro la Repubblica Popolare. Ma dal momento che questo riconoscimento è solo rimandato, nelle istituzioni europee si dibatte sulle possibili riforme della regolamentazione Ue sull’anti–dumping per contrastare l’espansionismo cinese e di altri paesi emergenti.
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Foreign Actors in the Libya’s Crisis
Since 2011 the Libyan crisis has moved from being a domestic dispute to assuming increasing importance at the international level. Today it represents a crucial issue affecting global security. The intervention of external actors in the Libyan crisis was mainly driven by a desire to direct the transition towards outcomes that would best meet their own political and economic interests. Accordingly, each external player tried to support one specific faction, favoring either the Parliament in Tobruk, upheld by Khalifa Haftar, or the Presidential Council headed by Fayez al-Serraj in Tripoli, the latter being legitimized by the UN as well as by local militias in both Misrata and Tripoli. This report analyzes the troublesome re-building of Libya with a focus on the specific role played by international actors (neighboring and Gulf countries, European nations, Russia and the US) which make it more of an international rather than a domestic issue.
EDITED BY
KARIM MEZRAN is Senior Fellow at the Atlantic Council’s Rafik Hariri Center for the Middle East. He is also an Adjunct Professor of Middle East studies at the Johns Hopkins School of Advanced International Studies (SAIS).
ARTURO VARVELLI is ISPI Senior Research Fellow and Head of North Africa Program. He is lecturer of History and Institution of the Middle East at IULM University in Milan and coordinator of the training course on the new forms of terrorism at ISPI.
Macron rilancia la Francia e Haftar, ma il risultato del suo summit è scarsino
Oui, je suis Emmanuel Macron
di Ugo Tramballi
L’altra sera a Roma ero al tavolo di un ristorante in piazza Farnese. D’improvviso è arrivata silenziosa una colonna d’auto con scorta e lampeggianti, dalla quale è sceso il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian. Monsieur Le Ministreè subito entrato nella sua ambasciata, a palazzo Farnese, uno dei più belli della città, e la scorta si è dileguata senza provocare disagi alla gente.
Un amico ha spiegato che Le Drian era stato ospite della dodicesima Conferenza degli ambasciatori d’Italia all’estero, alla Farnesina. C’era anche il ministro spagnolo. Ma come - mi son detto - ci chiudono i porti, i francesi ci sottraggono il primato sulla Libia e stanno preparando il furto sovranista ai danni di Fincantieri, e noi li invitiamo? Tra rompere le relazioni diplomatiche e un esagerato fair play, la diplomazia offre molte possibilità.
Alla luce di tutto questo mi sono chiesto a cosa servisse l’annuale messa cantata alla Farnesina. Un senso lo avrebbe se 130 ambasciatori fossero convocati a Roma per un brainstorming su cosa non va della nostra politica estera: se sia giusto o no rimandare l’ambasciatore al Cairo, come creare un “sistema paese”, promuovere l’economia, selezionare e addestrare i giovani, le carriere e lo svecchiamento, eccetera. Un brainstorming naturalmente a porte chiuse, nel quale dirsi cose utili.
Invece è stato una specie di festival di San Remo, ospiti stranieri compresi, nel quale chiunque parlasse sapeva di essere su un palcoscenico mediatico. Spesso una fiera delle vanità e della logorrea. Sono state perfino ripartite interviste: a questa feluca, quel giornale. L’iniziativa ha svelato qualche caso imbarazzante di sindrome di Stoccolma. La cosa peggiore che si possa fare a un ambasciatore è fargli un’intervista: per obbligo professionale è costretto alla banalità. Il meglio di se lo dà nelle conversazioni "off the record", dove può esprimere in libertà e competenza la sua capacità di giudizio.
Questa lunga premessa per arrivare a Macron, alla Libia e a noi. Ammettiamolo: "Oui, ils nous ont amaqués". Ci hanno fregato. Ma chiedendoci onestamente il perché, potremmo dare loro torto? Se foste Fayez al-Serraj o Khalifa Haftar e riceveste contemporaneamente e per lo stesso giorno un invito all’Eliseo e uno a Palazzo Chigi, a chi direste di sì?
Partiamo da un dato statistico. L’attuale legislatura ancora in corso ha prodotto tre presidenti del Consiglio (Letta, Renzi, Gentiloni) e quattro ministri degli Esteri (Bonino, Mogherini, Gentiloni, Alfano, l’ultimo dei quali non mi sembra molto interessato alla materia). Forse questa mischia serve alla stabilità del paese. Ma fuori è debito di credibilità. Con quale impudenza se non con la convinzione di non temerne le conseguenze, il ministro degli Esteri austriaco Sebastian Kurz ha potuto dire ad Alfano che l’Italia deve tenere i migranti a Lampedusa? Quel giovane "naziskin" (definizione del sindaco dell’isola) avrebbe detto qualcosa del genere a Le Drian?
Potremmo anche sostenere che l’errore dell’Italia è avere ignorato a lungo Haftar. Il piccolo Napoleone della Cirenaica sostenuto dall’egiziano al-Sisi - un Napoleone poco più grande di lui - ha lombrosianamente i connotati del generale golpista. Ma esiste. Tuttavia neanche questo basta per capire. Oltre alla nostra instabilità politica e a qualche errore diplomatico, esiste la Storia che fa la grande differenza tra noi e i francesi.
In qualsiasi modo abbia governato Berlusconi, cosa abbiano fatto Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, fra alti e bassi la Francia esercita il ruolo di grande potenza da mezzo millennio. Il senso di appartenenza dei suoi cittadini non si esercita solo alle feste comandate; lassù il “sistema paese” c’è davvero. Assomigliandoci più di altri europei per atteggiamenti e passioni, è come se i francesi fossero degli italiani che hanno avuto successo nella vita.
Avere una politica di potenza significa anche esercitarla usando la forza militare. So di dire qualcosa di controverso: anche riguardo alle mie idee personali. Ma come ieri, anche oggi un paese che minaccia di bombardare e manda le truppe è più credibile e ottiene di più. Per scelta l’Italia si affida al dialogo, alla mediazione, alle istituzioni internazionali. Vedi il sostegno a Serraj: il riconoscimento Onu a noi bastava, ad altri no. Per mettere una pezza, ieri Gentiloni giustificava Macron ma mi chiedo cosa ci sia di multilaterale nell’iniziativa francese.
Credo che l’Italia faccia bene ad adottare questa politica. Piacciamo quasi a tutti, anche se è quella simpatia che si concede a chi non si teme. Soprattutto è la politica che deve avere una piccola potenza regionale come l’Italia: purché ammettiamo di essere questo. L’alleato da imitare non è la Francia ma la Germania la cui storia è simile alla nostra: non interviene nei conflitti, si affida alle istituzioni multilaterali ma è più credibile perché ha stabilità politica, pace sociale, esporta di più e il suo orgoglio nazionale non è una saltuaria manifestazione di sciovinismo ma è fondato su una pacata concretezza.
Tornando a Macron, dopo tante manifestazioni di grandeur nazionale – Putin, Trump, il rifiuto dei porti, la Libia – sarebbe bello se facesse anche qualcosa di europeista: nella questione Fincantieri non ce n’è ombra. La festa elettorale davanti al Louvre aperta con l’Inno alla gioia, è rimasta solo un inizio.
Macron "santo subito" ieri ha fatto pure il miracolo
Si rafforza il ruolo di Macron in Libia. Ma la situazione nel paese resta complessa
al-Serraj a Roma dopo l'accordo raggiunto a Parigi con il generale Haftar
Tirocinio in un’agenzia dell’UE? Candidati per l’EFSA
Sono aperte ancora per qualche giorno e fino al 31 luglio le candidature per i tirocini presso l’European Food Safety Authority, l'agenzia dell'Unione Europea con sede a Parma che si occupa di ricerca, consulenza scientifica e comunicazione in materia di sicurezza alimentare. Vi lavorano scienziati ed esperti provenienti da tutta Europa e periodicamente offre dei programmi di tirocinio per i giovani laureati che vogliono fare esperienza presso i suoi uffici e acquisire conoscenze utili alla loro crescita professionale.
Per potersi candidare all’EFSA Traineeships Call 2017 è necessario avere una laurea triennale e un’ottima padronanza della lingua inglese (il livello minimo richiesto è il B2). Preferibile avere conoscenza in una delle aree in cui opera l’agenzia, ma sono disponibili posizioni in diversi uffici (legale, comunicazione, risorse umane ecc.), perciò vale la pena provare a candidarsi se si sta cercando un’esperienza in un contesto internazionale.
Il tirocinio può durare dai 6 ai 12 mesi e prevede un compenso mensile di circa 1.100,00€, più copertura delle spese di trasporto sostenute per raggiungere la sede dell’EFSA dalla propria città di residenza.
Potete candidarvi online e indicare le 2 aree di maggiore interesse, in ordine di preferenza. Se selezionati, sarete invitati a sostenere un colloquio (telefonico oppure online) per discutere della disponibilità, del ruolo, delle aspettative e della possibile data di inizio. Se interessati, troverete maggiori dettagli qui o potrete scrivere direttamente a traineeships@efsa.europa.eu
Kumar: "L’India ha ormai avviato le riforme più difficili. Oggi c'è spazio per l'Italia"
di Ugo Tramballi
“Nessun indiano avrà mai il potere d’imporre la sua volontà sugli indiani: la nostra è una democrazia scontrosa e rumorosa e non c’è comunità grande abbastanza che possa creare un’oligarchia benevola”. Così Rajiv Kumar cerca di spiegare quanto lungo è il cammino delle riforme di Narendra Modi, per quanto straordinario sia il consenso popolare di cui gode. Direttore alla Reserve Bank of India fino allo scorso febbraio, creatore di Pahle India’s Foundation, Chancelor del Gokhale Institute of Economics, Kumar è uno dei più autorevoli economisti del paese.
A novembre il premier Modi aveva annunciato la demonetizzazione: improvvisamente l’86% del contante fu messo fuori corso. Gli effetti fino ad ora sono stati buoni e l’economia non ha subito terremoti. “E’ un grande stimolo per la digitalizzazione della nostra economia e per la diminuzione del cash circolante: è il 12% del Pil, la percentuale più alta al mondo. Nei paesi OCSE è lo 0,5-3%”, prosegue Kumar, uno dei più prolifici autori di saggi sul sistema indiano. “Nell’economia digitale l’India può diventare avanguardia: abbiamo già 900 milioni di collegamenti di telefonia mobile e 200 milioni di conti correnti. Tutto questo semplificherà il business in termini fiscali, di riduzione del costo delle transazioni e della logistica.
Il primo luglio è entrata in vigore la Goods and Services Tax, GST. Quanto è importante?
È enormemente importante. Siamo una federazione con tanti stati, abbiamo bisogno di un collante per restare insieme. Nella nostra storia ci sono sempre state forze centrifughe, il GST è invece una forza centripeta: per la prima volta abbiamo un mercato unificato senza confini statali. Da Delhi a Mumbai un camion era costretto a fermarsi 17 volte (dazi, controllo della merce, peso, pedaggi, n.d.r.). Tutto questo sparisce in un colpo solo: è un miglioramento enorme, un cambiamento storico.
Quali riforme economiche indica l’ultimo bilancio statale?
Quelle del settore bancario. Sono già in corso fusioni, il prossimo passo sarà la chiusura o la fusione dei piccoli istituti pubblici. Sarà fatta pulizia degli assets non performanti. Il settore della difesa verrà aperto maggiormente alle compagnie internazionali che vogliono produrre in India. Infine il mercato del lavoro, già un work in progress. Abbiamo 56 leggi sul lavoro. Stiamo facendo un grande sforzo per razionalizzare un sistema che finora è stato un peso per le imprese.
Terra, mercato finanziario e del lavoro: le riforme di “seconda generazione” sono soprattutto riforme politiche, le più difficili.
Lavoro e banche le ho già menzionate. La terra è un soggetto dello stato. Sin dall’inizio del suo mandato, questo governo ha cercato di modificare la legge sull’acquisizione dei terreni ma si è sempre ritirato di fronte all’opposizione dei contadini. La terra è un fattore essenziale di una modernizzazione che in agricoltura non è ancora avvenuta: impiega il 40% della forza lavoro ma è solo il 14% del Pil. Tuttavia è un tema emotivo: penso che il governo debba essere cauto.
L’India deve allargare la sua classe media. Cosa può fare per questo l’esperienza italiana?
Dovete semplicemente aiutare le vostre PMI a venire in India: troverete un terreno fertile. Ma il vero campo di gioco non sono Delhi e Mumbai. La classe media sta crescendo altrove: Bangalore, dove tutti dovrebbero essere; Pune, il posto che scoprirete essere quello dove volevate essere, con il suo enorme centro di educazione tecnica; Ahmedabad e Chennai. Oggi il corridoio industriale Bangalore-Chennai, circa cento chilometri, è come la Route 125 negli Stati Uniti. Quello che voglio dire è che l’Italia dovrebbe concentrarsi in nove o dieci cluster.
Parliamo sempre di settori “tradizionali” nei rapporti indo-italiani. Ma ce ne sono d’inesplorati?
Il turismo: non abbiamo ancora fatto assolutamente niente e su questo l’India è molto debole. Avere 7,5 milioni di turisti l’anno è nulla: New York ne ha 15. L’industria turistica italiana e indiana son simili: è storia, tradizioni, cibo, archeologia, luoghi da visitare. La vostra esperienza nel settore è rilevante. L’aspetto più critico qui in India è l’impiego giovanile: ogni anno 10 milioni di ragazzi entrano nel mercato del lavoro. La parte più bella dell’industria del turismo è la sua capacità di generare occupazione. Segnalo anche come opportunità l’integrazione delle imprese indiane nei networks produttivi globali e regionali. Per esempio gli italiani potrebbero lavorare con gli indiani per entrare nei mercati dell’Africa orientale. Infine il real estate. Non vedo architetti italiani lavorare in India: lavorano in Cina ma non in India.